
Se non si interviene velocemente, si rischia la perdita di 50.000 posti di lavoro e l’aumento di 120.000 nuovi poveri: è questo il grido d’allarme lanciato dalle Acli della Sardegna alla luce dei dati del rapporto diffuso dallo Iares, l’ente di ricerca dell’associazione.
Il lavoro parte dai dati del Cerved, dello Svimez e dell’Aspal: già solo nel mese di marzo ASPAL contava 24.000 posti di lavoro in meno rispetto all’anno precedente e di questi meno di 5.000 nel settore turistico. Secondo lo Svimez sono 200.000 i lavoratori che hanno subito il lockdown in Sardegna, di cui un terzo lavoratori autonomi, artigiani, commercianti e professionisti e due terzi lavoratori dipendenti. A questi vanno aggiunti 50.000 lavoratori non tutelati, in prevalenza stagionali, per un totale di 250.000 persone che hanno sospeso il lavoro o non lo hanno avviato tra aprile e maggio.
“Per non far saltare il sistema sociale sardo – ha commentato il presidente regionale delle Acli della Sardegna Franco Marras – occorre velocità. Quante di queste persone rischiano di non riprendere il lavoro e perciò di ingrossare le file dei poveri, assoluti o relativi? Secondo due scenari elaborati dal Cerved, la Sardegna perderà circa il 9% della produzione nella migliore delle ipotesi e il 22,5% nella peggiore. Se si proietta questo scenario sull’occupazione ipotizzando tra il 10% e il 20% di persone che perdono il lavoro o non vengono assunte, il dato che emerge è imponente“.
“Se perdessero il lavoro il 10% di questi – spiega Marras – andremmo a circa 25.000 disoccupati ma i dati Aspal dicono che ci siamo già. Se andiamo al 20% come percentuale di perdita del lavoro, tra lavoratori autonomi, lavoratori non tutelati e lavoratori dipendenti di aziende private che non sono ripartite andremo a 50.000 disoccupati e, con le loro famiglie a oltre 120.000 persone che entrerebbero nella fascia della povertà, ingrossando le fila dei 167.000 poveri assoluti già presenti in Sardegna”
Dunque la ricetta delle Acli è quella di fare presto: per salvare i tessuti sociali ed economici servono risorse a fondo perduto che devono essere messe a disposizione attraverso meccanismi fiduciari, sul modello del prestito d’onore, o dei mini prestiti resi disponibili dal “CuraItalia” potenziandoli.
Tempi lunghi e burocrazia rendono inutili gli interventi perché erogati in ritardo e inefficaci. Secondo le Acli sarde, al centro vanno messe le comunità locali per un controllo sociale e non la Regione
per un controllo burocratico che costerebbe più del valore delle erogazioni.
Se, da una parte, si perderanno molti posti di lavoro, dall’altra ne nasceranno altri per i lavoratori che hanno competenze e capacità ma devono adeguarle ai nuovi lavori e servizi.
Per questo, secondo le Acli sarde, occorre pianificare un rafforzamento delle politiche attive del lavoro ed un programma di formazione per i nuovi lavori.
“Infine – conclude il presidente regionale delle Acli della Sardegna – per contrastare la povertà, come ci hanno insegnato Reis, Rei e Reddito di cittadinanza, non basta l’aiuto economico ma serve non lasciare sole le persone, creare una rete di salvataggio e tutela dalle difficoltà accentuate dalla paura della crisi. Inoltre occorre mettere al centro l’apporto che il terzo settore può dare nel territorio”.
Come si legge nel rapporto dello Iares, “occorre prendere lezione dal passato e non lasciare incancrenire la crisi, serve il sostegno a chi è più fragile e non sarà sufficiente quello economico se non saranno le comunità locali e territoriali, le reti sociali a farlo. In un quadro disgregato come quello con il quale siamo arrivati occorrerà il forte coinvolgimento delle reti associative, di tutto il terzo settore, che in queste crisi viene liquidato dopo la fase in cui serve per fare volontariato, guidare ambulanze, portare i farmaci e la spesa o fornire mascherine”.